NOCI – Giambattista Vico insegna che la storia è fatta di corsi e di ricorsi: gli eventi si ripetono nel cammino dell’umanità e quanto appare nuovo si potrà comprendere comparandolo per analogia a simili episodi già avvenuti nel passato. Pertanto, la 19^ edizione delle Conversazioni Storiche del “Settembre in Santa Chiara” non poteva che inaugurarsi con un appuntamento sulla peste di fine Seicento, che coinvolse anche la nostra Puglia. Così, lo scorso 10 settembre, in un Chiostro delle Clarisse allestito in ottemperanza alle norme anti-Covid, è andato in scena il primo incontro della manifestazione, organizzata dal Centro culturale “Giuseppe Albanese”, dal Comune di Noci e dalla Biblioteca comunale “Mons. Amatulli” e che, in questa diciannovesima edizione, vanta la collaborazione con la Società di storia patria per la Puglia – Sezione sud-est barese di Conversano, il Gruppo Umanesimo della Pietra di Martina Franca, l’I.I.S. Da Vinci-Agherbino di Noci-Putignano e le associazioni “Terra Nucum” e Puglia Trek&Food di Noci.
La serata, introdotta e moderata da Giuseppe Basile, ha visto come ospite Vito L’Abbate, presidente della Sezione sud-est barese della Società di storia patria per la Puglia, che ha illustrato ai presenti cosa accadde nel Mezzogiorno nel Seicento. Era il 1656 quando il viceregno di Napoli, alle dipendenze dalla Spagna, fu colpito da una epidemia di peste che devastò numerosi paesi. Il drammatico episodio fu ritratto innanzitutto dai pittori, che misero su tela lo sgomento di quel periodo; periodo durante il quale la chiesa assunse un ruolo di guida, invitando alla preghiera e alla penitenza, considerando il morbo un castigo divino. Come consueto per l’epoca, infatti, di fronte ad eventi incomprensibili, si ricercava una spiegazione ed un aiuto soprannaturale. È del 1657 la statua del San Michele di Porta Barsento a Noci, con la dicitura imminente peste: il morbo incuteva terrore e ci si rivolgeva, quindi, fiduciosi, alla santa intercessione di San Michele, protettore angelico, vincitore del male.
Ma Noci divenne protagonista della seconda ondata dell’epidemia, quella che colpì la Puglia nel 1691, abbattendosi in particolare su Conversano, Monopoli, Castellana e Mola. Il numero crescente dei contagi preoccupò Napoli, che aveva ancora viva memoria del terribile ‘56. Vennero, pertanto, inviati funzionari e medici nella Terra di Bari ed in particolare il marchese della Rocca, Carlo Garofalo. L’invito fu quello di procedere “ad modum belli”, come se si stesse combattendo una guerra. Il nemico? Invisibile, ma estremamente pericoloso. Furono inviati 2000 soldati e tutti i paesi colpiti dal contagio furono rinchiusi in un invalicabile “muro della peste”, dal quale non era possibile entrare o uscire. Insomma quelle che, nella nostra emergenza sanitaria, chiamiamo “zone rosse”.
Noci non era all’interno di questo cordone, ma fu coinvolta da un caso sospetto di peste. La vicenda è magistralmente rievocata dallo storico locale Pasquale Gentile che spiega come, nell’agosto del 1691, Rosa D’Onghia giunse inferma alle porte della Terra delle Noci, proveniente da una masseria nei pressi di Casaboli. A Noci, all’epoca, non c’erano medici, pertanto si ricorse ad un barbiere che assicurò l’assenza di febbre nella donna ammalata e di altri sintomi riconducibili al temibile morbo. Per precauzione, D’Onghia venne fatta rinchiudere in una torre, mentre ai deputati si presentò l’arciprete Gerardoronzo Cassano, proprietario della masseria, per spiegare che non si trattava di peste, ma di una rottura dell’utero. Nel frattempo, in pochi giorni, Rosa D’Onghia morì: il medico di Putignano confermò il prolasso dell’utero, ma notò sul cadavere delle macchie sospette. Il corpo venne, dunque, rinchiuso in una torre e ci si mise sulle tracce dell’arciprete, che però si dileguò. Seguirono curiosi eventi tra Noja e Rutigliano, che videro il coinvolgimento anche del sindaco di Noci che finì, anch’egli, arrestato per aver firmato la “bolla della salute”, senza diritto, al cugino arciprete, favorendone la fuga.
In virtù del solo sospetto di peste della D’Onghia e dell’arciprete, Noci venne isolata, fu vietato alle altre città di avere commerci con il nostro paese: sotto pena della vita nessuno poteva entrare o uscire. Ma come sarebbe arrivato qui il morbo, essendo il paese fuori dal cordone? Le possibili cause: 1) robe cavate da luoghi infetti e nascoste prima del formarsi la linea di circonvallazione; 2) robe infette trasportate da Bari, Bitonto o Palo toccati dal contagio; 3) robe di contrabbando che hanno introdotto il morbo nella provincia. Il sospetto, inoltre, venne accresciuto in considerazione del fatto che Gerardoronzo Cassano era stato mesi prima a Conversano e da quella città poteva aver trasportato qualche roba al suo ritorno. Dopo i canonici 40 giorni di quarantena, però, a Noci non emerse nessun caso effettivo di peste e l’incubo finì. Come la storia insegna, però, “non tutti i mali vengono per nuocere”: il terribile “spavento” servì a rinforzare la sanità e servizi sociali nei primi decenni del ‘700, con l’arrivo di medici del servizio pubblico.
Il racconto della Noci del passato alle prese con la peste ha riscontrato grande coinvolgimento ed interesse del pubblico che ha potuto intrecciare l’oggi con l’ieri, riscoprendo l’attualità di situazioni avvenute secoli fa, ritrovandosi ad usare lo stesso alfabeto di paura e a condividere la stessa speranza: che l’incubo dei contagi passi in fretta.
Prossimo appuntamento con la storia giovedì 17, con “Storia di reduci e sognatori. Fulvio Tassani e la rinascita delle aree verdi a Noci (1946-1956)”. Per prenotarsi, è possibile chiamare in Biblioteca.