E’ morta la politica? La risposta potrebbe essere apparentemente scontata, invece, pensandoci su, non è così semplice. Ci si incontra spesso nelle nostre piazze, e mai emerge un vero dibattito sullo status della nostra politica, piuttosto, delle frasi fatte su interessi personali dei politici, l’assenza delle ideologie e la fine dei partiti. Prestando attenzione ai fatti recenti sullo scioglimento delle camere, ecco che subito le belve umane alla Giandomenico Fracchia emergono dal loro anonimato. Si intende che tale riferimento è bonario e sottolinea tutta la nostra incapacità di affrontare fasi e processi politici che la medesima Storia ci presenta come sfide. Ragionando nel profondo della questione furono proprio gli italiani nel 1946 a volere con convinzione un radicale cambiamento votando la repubblica e bocciando la monarchia; sono state le precedenti generazioni della resistenza a battezzare il neonato stato repubblicano con la formula della costituente e del pluralismo partitico. La libertà e la partecipazione, quindi, sono alla base del nostro DNA nazionale, insieme alla scelta elettorale quale responso della verità delle urne del popolo sovrano. Quale atto migliore di questo? Quale altra prassi potrebbe apparire più nobile? Io credo proprio nessuna. La capacità di scelta è dettata dallo spirito critico, dalla crescita dei nostri valori e dal bene dell’Italia.
Ciò, infatti, consiste in un costante impegno nel cercare di ottenere una collocazione politica e a fare delle nostre vite spesso grigie e prive di prospettive, delle entità concretamente operanti per il bene comune. In verità l’analisi della disaffezione degli italiani al voto è cominciata con gli anni novanta, con tangentopoli, fino a giungere al suo apogeo con la parabola tecnocratica del governo Monti e con il periodo segnato dal fiume in piena del peggior opportunismo e sfascismo delirante di alcuni urlatori poi imborghesiti nella casta politica. La ragione di tutto ciò è tale per cui tutti noi saremmo giustificati nel non andare a votare e a lasciare tutto in un sconfortante incendio un po’ come accade per i nostri boschi d’estate, assistendo impotenti a questa tragedia. Soluzioni di un ritorno all’epoca morotea o andreottiana, o addirittura allo scudo crociato delle origini degasperiane è alquanto impossibile, infatti, i tempi sono cambiati, e con i tempi anche le prove che la politica affronta in primis con generazioni apparentemente più istruite ma nella realtà totalmente ignare del proprio ruolo nella società e anche estranee a qualsiasi tipo di impegno sociale. In verità abbiamo finito di credere alla politica quando si è gioito per la caduta del muro di Berlino, tanto che veniva ripetuto come un mantra l’inutilità della sopravvivenza delle “due chiese”- DC e PCI.
Ed ecco che venuto meno il credo cristiano, capace di guidare la società con i propri principi, e il credo operaio – sindacale, i cittadini hanno perso prospettive e sicurezze, raggiungendo poi l’odio totale verso le istituzioni con la caduta dell’ultimo governo Craxi. Insomma, l’Italia di Peppone e don Camillo, sempliciotta e credulona, ma non tentata dalla spocchiosità e dalla nullafacenza, tramontava definitivamente lasciando anche un po’ di nostalgia per chi l’aveva vissuta in pieno. Ora, al contrario, siamo noi i testimoni di questo tempo, i destinatari di una politica assente, inconcludente, fatta di paure, aut – aut e ricorrenti formule di spauracchio totalitario quasi come avviene in una seduta spiritica quando si evocano fantasmi e spettri, oppure come quando il mago Otelma rivestiva i paramenti del sacerdote – mago nella domenica di mediaset e recitava le sue formule apotropaiche. Questo quadro ha certamente del tragicomico, ma è proprio questa descrizione scanzonata della realtà che deve creare in noi quel fremito, quella iniziativa di resistere alla stupidità e alla inconcludenza con lo spirito della coscienza. Sì, quando la Storia e i fatti non ci vengono incontro nel migliore dei modi è giusto agire con coscienza, ovvero, attraverso l’interrogarsi assiduamente sul da farsi e agire per “sacro dovere”, indipendentemente dalla bassa moralità di chi ci rappresenta. Per inciso: quando lo Stato ha perso la capacità docente sia il popolo con le sue forze a insegnare spirito civico di partecipazione e abnegazione democratica. Se si vuole invece una concreta ed efficace riforma del sistema italiano è giusto proporre iniziative come la presenza di una sola camera, oppure la nascita di un bipolarismo secondo il modello americano e britannico facendo ruotare il complesso mondo della politica odierna attorno a un partito conservatore e a uno progressista.
Chiaramente i nostri politici non assisterebbero senza sconcerto a questa proposta che sa di fascismo (ormai divenuta una grottesca accusa) e si straccerebbero le vesti per tale riforma. Noi cittadini, invece, assisteremmo inconsapevoli al dibattito non partecipando, oppure convinti dalle assurde convinzioni minacciose di certi esponenti. Pertanto compreso che una riforma del genere sia impossibile da farsi non ci rimangono che due strade: tenerci i nostri politici e votare adempiendo con onestà al nostro dovere, o cedere ad una forma patetica di anarchico nichilismo che ci consegnerebbe tra le braccia del nulla più totale. Durante il Novecento l’Europa ha conosciuto i regimi totalitari, due guerre, e poi la nascita dei nuovi stati democratici. Ora, secondo un processo storiografico, la società che diventa fedele ai consumi e alla mercificazione tende a mercificare ogni cosa trattandolo come un bene di consumo – bene di massa. Quindi sarebbe più opportuno non reputare colpevoli di questa distanza tra cittadini e politica solo i nostri governanti, bensì sarebbe più equo ammettere anche che durante il boom economico gli italiani beneficiarono di aiutini e favoritismi qua e là per cui c’era più ottimismo e maggiore carica emotiva nel votare. Allora, veniamo a noi – Siamo certi che i politici solamente siano i veri responsabili del declino della politica? O il tornaconto da entrambe le parti ha finito per foraggiare a dismisura la corruzione tanto da corrompere anche la moralità onesta del popolo italiano? Sicuramente da quando la politica ha mostrato il volto peggiore della casta e alcuni cittadini non hanno più beneficiato di favori piccoli e grandi ecco che il circolo vizioso del panem et circenses ( cioè della reciproca convenienza) è venuto meno e, per molti ormai, è meglio lasciare questa repubblica a qualche dilettante. Riprendere le fila del discorso su come sia frammentato e variegato il popolo italiano è ardua impresa, poiché l’origine di tutto questo conflitto è da ascriversi a un processo unitario veloce e spesso idealizzato, ad un progetto di annessione e di non preparazione alla formazione di un vero e sincero spirito patriottico. E ne paghiamo le conseguenze. Citerei a conferma di questa tesi, cioè della difficoltà degli italiani a sentirsi un corpo e un’anima, lo statista Massimo D’Azeglio, il quale affermò: “Abbiamo fatto l’Italia adesso dobbiamo fare gli italiani”. Direi che è una frase corretta quanto anche erronea.
Corretta per la reale constatazione del tempo, erronea per l’attuazione. E’ opportuno, infatti, che si crei prima una coscienza patriottica e poi un processo di annessione territoriale. Ma chiaramente non possiamo tornare indietro di più di centocinquant’anni, e il processo al passato è inutile storia, ma anche fondamentale per capire le attuali conseguenze che ci troviamo a vivere. Paradossalmente il periodo più florido per gli italiani, dal punto di vista di unità nazionale e patriottismo, coincide con gli anni della Prima guerra mondiale, quando la famosa mamma, Maria Bergamas, riconobbe d’istinto la salma del figlio caduto in guerra senza vederlo, diventando poi il Milite ignoto, il soldato ignoto e il figlio di tutta Italia. Nostalgia? Recriminazione? Assolutamente no! Essa è invece la consapevolezza di una nazione che ai tempi sapeva rialzarsi e sapeva innamorarsi del tricolore. Se ciascuno di noi, forse, sventolasse il tricolore non solo per gli eventi calcistici ma lo tenesse anche in casa come simbolo laico di speranza avita e intramontabile, allora ci sarebbe un po’ di amore verso questa patria che, come dice De Gregori, sa tenere gli occhi aperti anche nella notte più scura. Del resto la presa di coraggio nel votare, nel ridare una opportunità all’Italia, è come rialzarsi dai fantasmi del passato, è come riprendere maggiore autostima di noi ripetendoci costantemente che poi, gli italiani, non sono così male.
Del resto vincere le proprie paure è un forte atto di fiducia e di speranza, e chi fa campagna elettorale sui fantasmi del passato e della paura è già morto disperato. Imprigionato, magari, in qualche sbiadito dagherrotipo di ottant’anni fa. A proposito di ciò aggiungerei che l’amore verso la politica, oltre che amore verso i cittadini, si presenta come occasione per ribadire in uno Stato di diritto il concetto e il valore della giustizia. Se prestiamo attenzione dove non c’è politica non c’è giustizia e dove non c’è giustizia c’è sopraffazione e disonestà, il tutto chiaramente collegato ad una eccezionale sottomissione del popolo alle forme di governo più aspre che sono il vaso di Pandora di tutte le sciagure sociali. A proposito di questo concetto di politica e giustizia si potrebbe asserire che spesso lo Stato è portavoce di ingiustizia, ma non trascuriamo anche il fondamentale aspetto della forza della testimonianza di quei cittadini giusti di ogni professione che con forza si battono per la costante legalità. Gli esempi più eminenti e recenti sono i giudici Falcone e Borsellino i quali non hanno bisogno di ulteriori retoriche lodi, in quanto le loro orme guidano sapientemente ancora oggi migliaia di giovani e uomini onesti.
Quindi se la politica muore, muore anche la giustizia, e a farne le spese sono i cittadini come accadde per il povero Aronne Piperno nel celebre film de Il marchese del Grillo; allora l’unica cosa da fare sarebbe suonare le campane a morto per la morte della giustizia. Vorrei concludere con una citazione della celebre filosofa e politologa Hannah Arendt, la quale nella sua opera Tra passato e futuro scrisse: “I processi storici sono creati e interrotti di continuo dall’iniziativa dell’uomo, da quell’ “initium” che l’uomo è in quanto agisce. Di conseguenza, non è per nulla superstizioso, anzi è realistico cercare quello che non si può né prevedere né predire, esser pronti ad accogliere, aspettarsi dei “miracoli” in campo politico.