“A vita noste”: una poesia di Giuseppe Plantone

NOCI – Abbiamo ricevuto in redazione una richiesta di riscrittura in dialetto di una poesia composta nella seconda metà del secolo scorso dal nocese Giuseppe Plantone. Grazie all’aiuto di Mario Gabriele, presidente del Centro Studi sui Dialetti Apulo-Baresi, abbiamo trascritto la poesia in dialetto corretto, esaudendo il desiderio del figlio Stefano. Riportiamo una breve spiegazione dei motivi della pubblicazione della poesia, seguito dalla stessa e da un commento per comprendere il pieno significato di quest’opera.

Mio padre, Giuseppe Plantone (conosciuto come Peppino), nacque a Noci nel 1935, dove ha trascorso la sua giovinezza. A soli 12 anni, purtroppo, perse la madre e ciò lo costrinse ad abbandonare gli studi, per aiutare la famiglia nella gestione quotidiana della masseria di “Curadde” inizialmente ed in seguito di Torre Abbondanza.

Ma mio padre aveva sempre fame di cultura e suo Zio Ciccillo gli regalò una sorta di enciclopedia che divenne la sua migliore amica. La portava con sé durante i pascoli e correva a leggerla in ogni momento libero. A 21 anni, durante il servizio militare, riuscì a conseguire la licenza di quinta elementare. Durante gli anni 50 ebbe regalato il primo libro di poesie in dialetto nocese del Prof. Vittorio Tinelli, da cui è nata la passione per scrivere poesie in dialetto Nocese.

Pubblicando “A Vite Noste” il giorno di San Giuseppe ho voluto fare una sorpresa a mio padre, nonostante 3000 Km che ci separano, per esprimere il mio apprezzamento per le sue doti nascoste e mai esibite di “Poeta Contadino”. Oggi, che si festeggia il tuo onomastico e la festa del Papà, volevo ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me e per tutta la nostra famiglia.

Auguri Papà

Stefano Plantone

 

A-vita-Nostre-poesia-plantone

 

Le 27 quartine a rime alternate che compongono “A vita nóste” di Giuseppe Plantone, ricostruiscono uno spaccato vero e limpido della vita nei campi nocesi durante gli anni cinquanta del Novecento.

Figlio di contadini poveri, è stato egli stesso contadino. Ha conosciuto e vissuto la povertà, la fame, il duro lavoro, l’impossibilità della protesta, la negazione del riposo, dello svago e dell’allegria.

Giuseppe ha memoria, non vuole dimenticare, avverte la necessità del racconto, quasi l’obbligo morale di trasmettere un’esistenza, per così dire maledetta, che non sia mai più ripetuta, che il lavoro sia fonte di dignità e liberazione umane. Forse, con sensibilità profetica, egli sente e intuisce che quella maledizione stia tornando, che una nuova stagione di lavoro oltremodo mercificato, schiavizzato, precarizzato sia già alle porte. Letta con occhi odierni chiedersi cosa differenzi la vita di un bracciante di 70 anni fa da quella di un immigrato raccoglitore di pomodori in Capitanata, di una madre tagliatrice d’uva in un tendone di Andria o di una ragazza di un Call Center di Taranto, di una giovane laureata in uno studio legale di Bari è puro esercizio retorico. 

Ma non è solo questo, sarebbe decisamente riduttivo e offensivo nei confronti del Giuseppe poeta. Difatti “A vita nóste” si inserisce a pieno titolo nello “statuto” di quella che si definisce poesia civile. L’autore squaderna con la parola un viaggio dentro la propria anima, l’anima dell’altro e del mondo. Scrive una storia individuale e collettiva che parte dalla riscoperta della propria identità più autentica e dell’appartenenza a un luogo preciso: la terra, ‘u fóre’, quindi dalla coscienza d’essere ‘n’ómme de fóre’. D’altra parte non può esserci “poesia civile” e non può esserci storia senza un legame intimo, materiale, etico con il territorio nel quale si è nati e vissuto: con campi, alberi, animali, case, masserie, paesi, piazze e chiese. In definitiva se l’anima è il luogo della poesia, la propria terra è il luogo della poesia civile.

Del luogo fa parte ovviamente anche la lingua, nel nostro caso la lingua madre. Pertanto l’autore non poteva che scegliere il dialetto, altra fonte essenziale che costruisce e definisce un’identità. Si dà il caso o la fortuna che la “parlata” di Noci ricalchi un suolo arido e assetato fatto di zòppoli, pèntimi e mazzacani. Sa essere quindi contorta e ruvida come ‘na péta cucciòle’, il pietrisco, a ‘fracine’. È pietrosa la lingua del componimento ma di pietra che viene dal mare, fatta nel mare per accumulo d’ossa di creature marine pertanto porosa, attraversabile e malleabile. Giuseppe la scalpella, la smussa e la leviga per dare suono e senso ad una poesia che può muovere ad un possibile riscatto.

Mario Gabriele

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