Dalla letteratura greca ai proverbi misogini del dialetto nocese

NOCI – Umiliata, zittita, picchiata, denigrata, violentata, soggiogata, molestata, tradita, sottomessa, offesa, provocata, ferita, ridotta al silenzio, schiavizzata, inascoltata, fraintesa, non creduta, irrisa.

Quanti altri termini vi vengono in mente per descrivere la sorte toccata alla donna nel corso di interminabili secoli bui, quando la si riteneva santa se moglie e madre devota, e simbolo del male se non corrispondente all’immagine che l’uomo aveva tracciato per limitarne ogni forma di espressione indipendente?
Quanti altri termini vi vengono in mente per descrivere la sorte che le tocca ancor oggi, in una società che millanta libertà e parità di genere, ma nei fatti dimostra di essere profondamente ancorata a logiche maschiliste?
Quanti altri termini vi vengono in mente per descrivere l’oppressione rivolta agli stessi uomini, che, rifletteteci, proprio a causa di quelle logiche patriarcali non possono mostrare fragilità, sensibilità, debolezze per non far crollare la loro maschera di testosterone e virilità ed essere, quindi, derisi dai loro simili?
I danni provocati nel tempo dalla fallocrazia sono innumerevoli e quanto ancora bisogna lottare perché la nostra società possa finalmente definirsi civile!

Basterebbe poco, anche solo prestare attenzione ai termini che usiamo con leggerezza tutti i giorni, per fare la differenza. La lingua, sì, proprio la lingua è fra i maggiori responsabili della condizione di inferiorità della donna. Persino nelle piccole realtà la lingua ha inciso a livello sociale per instillare quel senso di pudore, quella sensazione di vergogna, quell’impressione di inadeguatezza insiti nell’animo femminile quasi come un’eredità biologica che si è trasmessa di madre in figlia, di generazione in generazione, di secolo in secolo, e che ancora, ammettiamolo, è segretamente parte di tutti noi.

Partiamo dal nostro piccolo, allora, dalla nostra comunità dialettofona per provare a ricostruire linguisticamente il senso di certi modi di dire che hanno contribuito a intessere quel “corredo genetico” cui si è testé accennato.
Il dialetto nocese ha attinto a un pozzo infinitamente profondo per elaborare i suoi detti antifemminili. Sorprende la quantità di parallelismi fra l’antichissima produzione letteraria misogina – frutto, è evidente, di un condizionamento culturale collettivo – e i proverbi, gli epiteti, le espressioni ginecofobiche in uso a Noci.

Il poeta greco Esiodo (VIII-VII sec. a.C.) racconta nella sua Teogonia la creazione della donna. Prima del suo arrivo, gli uomini vivevano in armonia sulla terra, senza turbamenti, ma Zeus, adirato per il furto del fuoco ad opera di Prometeo, assembla questo essere dall’aspetto incantevole e dall’animo marcio e lo manda sulla terra per punirli.

Allora in cambio del fuoco ordì un male per gli uomini:
infatti l’illustre Anfigiee formò con la terra
un’immagine di vergine vereconda per il volere del figlio di Crono
l’ornò di cintura la dea glaucopide Atena e la vestì
di candida veste; dall’alto del capo un velo
dai mille ricami di sua mano fece cadere, meraviglia a vedersi

Sono versi che evocano i detti locali

Quanne a fèmene se mètte all’opre mètte u munne sòtta a sòbbe

Quanne a fèmene se mètte i cazune pòvera chèse cià brutta fertune

Ce ogne rróse téne na spine a béllèzze è na ruvine

Continua Esiodo: “Dentro il suo petto, come voleva Zeus, Ermes pose discorsi ingannevoli, scaltri costumi e cuore di cagna”. L’apparenza affascinante e la coscienza corrotta della donna ci ricordano subito il proverbio nocese a fèmene é ccòme na castagne, bélla addafóre ma jinde téne a magagne.
Riprende Esiodo: “Afrodite donò grazia, irresistibile seduzione, desiderio struggente”, che ci ricorda il famoso tire chjù nu pile de fèmene ca nu paricchje de vuéve.
Ancora il poeta: “[…] Di lei, infatti, è la stirpe nefasta e la razza delle donne / che, sciagura grande per i mortali, fra gli uomini hanno dimora”, cui fa eco il dialetto nocese con il detto ce nna canòssce dógghje matine e ssére, ce jé ggiòvene se pegghjèsse na fèmene.

Esiodo “sparla” della donna anche in Le opere e i giorni, in cui avverte: “Non ti ingarbugli una donna, che, stretto alle natiche il manto, sculetta per entrare nella tua dispensa. Chi delle donne si fida, fidare si può dei ladroni”. Ammonimento, questo, che ci ricorda i nostri modi di dire quanne a fèmene u cule trabballe, ce nan’é puttène diàvele falle e a megghjére é mminze pène.

Avete mai riflettuto sul fatto che per offendere una donna si può ricorrere al vastissimo repertorio linguistico del mondo animale? Questa meravigliosa eredità ci giunge direttamente da Semonide (VII sec. a.C.), poeta giambico greco, secondo il quale le donne hanno un’indole animalesca. Il poeta sostiene che se la donna proviene dalla scrofa, la casa è una lordura, un macello; non si lava, stravacca nel letame e ingrassa: é nna lardòne. Se ha l’indole della cagna, è curiosa di sapere, va in giro, perlustra, si sgola e non si calma neanche se le fracassi i denti: é nna veneróle. Se è come una gatta, è ninfomane e furiosa: é nna tiracifele o tiranòzzere. Se ha animo di cavalla, si lava, si pettina, si trucca, è pronta a ogni amore; si affaccia ai passanti e dice: “sono uva”: fèmene a fenéstre, uve de strède.
Potete dirle che è mule, se è sterile; vipere, se è maldicente, scaltra, astuta, se tradisce ed è pronta al male; vacche o scròfe, se è grassa; cavaddòne, se è alta e robusta; pecciòne, se è avvenente; pèrchje (varietà di pesce), se è oltremodo piacente; zócchele, se sessualmente libera; zócchele, se rivendica e pratica la libertà; zócchele, se non cede; zócchele, se ha potere; zócchele, se si comporta a modo suo.
Se preferite usare delle similitudini, rivolgetele questi detti: ciucce e megghjére s’addumene a stessa manére; na papere, na fèmene, nu puèrche vultuèrene minze paise; fèmene, ciucce e crèpe ténene a stessa chèpe.
Oppure, se avete avvertito anche lontanamente il dispiacere che questi insulti possono infliggere all’animo umano, conservatene memoria per non ricorrervi mai più.

Alla luce di ciò che è emerso da questo studio, dovremmo concludere che il dialetto è un idioma tremendamente ostile, condannandolo all’inutilizzo per spezzare l’influenza negativa che può avere sulla nostra società? No. Sarebbe folle. Non perché non è oggettivamente il frutto di una consolidata mentalità patriarcale, ma perché cancellare una lingua significa commettere un crimine pari a quello che denunciamo. E poi perché coltiva nel suo nucleo un termine che, per quello che indica e rappresenta, riscatta l’intero repertorio oltraggioso appena rispolverato: gnostra. La gnostra, vivace microcosmo del centro storico di Noci, è un termine che deriva dal latino inclaustrum, da includere = chiudere dentro, serrare dentro, inserrare. Un ambiente che in passato ha “chiuso dentro” la donna, dunque! Sì, ma che ha tirato fuori la sua energia: la gnostra è donna, anima autentica di questa realtà, madre che dà e toglie. La donna della gnostra prende decisioni, determina il flusso della vita, include l’onesto e mette in fuga il disonesto. La donna della gnostra esercita quel potere che è appannaggio esclusivo dell’universo maschile, e lo fa, tuttavia, con la sua umanità.

Le parole, a qualunque lingua appartengano, sono importanti. Usiamole con cura.

 

Angela Liuzzi

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